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Rilettura critica della biografia
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Estratti

È importante capire le fondamenta su cui poggia il tutto: il personaggio, il messaggio, l’organizzazione, la missione, se e quando ci sia deviazione o sopraffazione o ancora, sfumata connessione tra realtà e mito. Ho dunque deciso di “leggere” la biografia. Devo precisare che, pur essendo andato a vivere con A. all’inizio del 1980 e partito cinque anni dopo per diffondere la buona parola in Europa, non faccio parte di coloro che vennero da lei, che costruirono la loro fede o vi rimasero dopo aver letto la sua storia scritta in un libro. La prima biografia apparse in inglese quattro anni dopo la mia partenza. In retrospettiva, devo confessare che sono abbastanza turbato da quello che ho finalmente letto ma capisco meglio l’origine delle derive del movimento. Cercherò di esprimere qui l’interpretazione di questa (ri)lettura seguendo il testo riga per riga senza aggiungere fatti o episodi. 

La versione originale fu scritta dal prof. M. Ramakrishnan Nair in Malayalam nel 1986. Fu quasi interamente narrata da A., registrata su cassette e trascritta. La prima versione inglese, scritta da Balu, fu a grandi linee ispirata all’originale e comparve due anni dopo, nel 1988. Va notato che successivamente la biografia  subì  molte modifiche in base alle esigenze politiche dell’organizzazione – eh sì, proprio come i potenti che riscrivono la storia. Infatti, dopo la mia partenza nel 1993, fui eliminato dalle versioni successive, poi reintegrato in modo marginale e dispregiativo. Gail dovette subire le stesse vicissitudini dopo la sua partenza nel 1999 e soprattutto dopo la pubblicazione del suo libro nel 2013. Poi, secondo indiscrezioni, fu completamente cancellata nell’edizione 2012, la stessa cosa accadde per Chandru, Pai, io (Ganga) e Manju. La versione a mia disposizione al momento in cui scrivo è del 2011. Appaio ancora  in modo marginale. Ma soprattutto non in quanto suo ex rappresentante europeo, colui che fondò la sua missione in Europa, che diede vita ai suoi satsangs viaggiando a tale scopo fino a 10.000 km al mese, l’organizzatore dei suoi tour europei fino al 1993, il fondatore e organizzatore del suo primo Centro europeo al confine franco-svizzero-tedesco, il suo traduttore-interprete e il suo autista nel corso delle sue visite (tra le varie città d’Europa quando non viaggiava in aereo). Se una tale omissione non fosse oltraggiosa, sarebbe divertente!

Sul quotidiano “Madhyamam” il 13 aprile 2014 fu pubblicato un articolo di stampa in merito, tra l’altro, a questi cambiamenti, inclusa un’intervista al professore biografo. Questi si espresse dicendo che “una biografia (di A.) senza Gayatri non avrebbe alcun senso” .

Prima di iniziare questa analisi, vorrei riprendere quello che A. stessa disse di Gayatri nella versione originale. Il professore, primo biografo, afferma che queste citazioni gli sono state dettate testualmente:

  • “A. predisse (a Chandru) che la persona che si sarebbe presa cura di lei sarebbe stata a Tiruvannamalai.”
  • “Gayatri chiese ad A. il permesso di vivere con lei. A. rispose che sarebbero morte insieme.”
  • “Una persona come Gayatri viene in questo mondo solo una volta ogni millennio. Lei non ha bisogno di meditare. Raggiungerà il suo obiettivo (spirituale)“.
  • “Lei è una perfetta sannyasini (monaca)”.
  • “La sua mente è sempre fissa su A. Gayatri sa quello che A. pensa.”
  • “A. ha 1000 lingue per parlare di Gayatri” (traduzione: soltanto lodi).

Fin dall’inizio, diciamolo senza mezzi termini, questa biografia è un concentrato sconcertante di bigottismo indigesto in cui l’uso dell’esagerazione, dell’enfasi, dell’eccesso e della sopraffazione non solo rende la storia difficile da leggere, direi quasi da ingoiare, ma indubbiamente anche difficile da credere. A volte il biografo martella inesorabilmente una narrazione  anche a scapito della coerenza. Ma come vedremo, grazie al cocktail di fede e devozione, tutto è possibile.  Nella prefazione, l’autore segnala che il grande maestro, la mistica, nacque  in piena coscienza. Su queste basi, non c’è più niente da leggere, se non per convincersene. La prefazione specifica testualmente fin dall’inizio che “si dedicò o manifestò (non sappiamo a quale dei due) un rigoroso ascetismo” (…) “senza essere guidata da un guru” (…) [e che] all’età di 21 anni, manifestò il suo stato di realizzazione divina .

Per coloro che visitano l’ashram oggi, immaginare com’era il villaggio di pescatori fino al 1978 richiederà uno sforzo insormontabile di immaginazione poiché ora è invaso e snaturato da edifici e grattacieli. Diciamo che era buio (sotto il fitto fogliame del boschetto di cocco), sporco e miserabile. Le case, quando erano solide, erano primitive. I poveri vivevano in capanne di foglie di palma intrecciate. I sentieri sterrati erano stretti e fangosi. L’autore, da parte sua (e qui mi riferisco d’ora in poi alla versione inglese), descrive il villaggio come dotato di santità e grandezza. Si basa su una leggenda che racconta in quattro pagine e conclude dicendo: “Non è sorprendente che questo luogo sacro sia stato ancora una volta al centro di un nuovo avvenimento divino?”

Presenta la famiglia come pia, devota e giusta – vedremo più avanti di cosa si tratta in realtà – e indica che al suo interno sono nate molte anime pie. Per mostrare quanto fosse pio suo padre, afferma che, a causa della sua identificazione con Dio, svenne sul palco durante una rappresentazione teatrale di Kṛiṣhṇa. Anche alla madre viene conferito il suo titolo di nobiltà: la gente del posto la chiamava la signora brahmina perché era una donna molto pia. Sembra, inoltre, che quando interrompeva i suoi regolari digiuni, gli alberi di cocco lasciassero cadere le loro noci affinché potesse dissetarsi. Magia ! Poi, in vero stile kitsch Bollywoodiano, fa apparire un monaco a caso che annuncia che quel luogo sarebbe diventato sacro dove numerosi monaci avrebbero raggiunto la liberazione e nel quale molti asceti  vi starebbero già meditando (nella forma sottile?),  vi sarebbero inoltre sepolti molti mahatma. E così come è arrivato, se ne va con una risata estatica.

La scena è pronta, la bambina può fare la sua apparizione. Durante la gravidanza entrambi i genitori ebbero delle visioni, in particolare la madre sognò che avrebbe partorito Kṛiṣhṇa. Sudhamani sarebbe quindi nata grigio-blu scuro (come Kṛiṣhṇa, il colore delle nuvole prima della tempesta), cosa sorprendente considerando il colore della pelle chiara del resto della famiglia. (Condividerò la mia teoria sull’argomento più avanti.) Pensavano  si trattasse di una malattia e fu loro consigliato  di  non lavare la bambina per sei mesi. Uh!…, C’è un dottore a bordo? Riuscite ad immaginare una bambina non lavata per 180 giorni? (Kṛiṣhṇa o malattia? Ovviamente non potevano saperlo e questo dubbio confonderà tutta la storia.) In breve, a causa del colore della pelle i genitori provavano per lei solo avversione e la trascuravano. Così pii e giusti, forse, ma non particolarmente scaltri o empatici. Questo tuttavia non ebbe importanza, Sudhamani iniziò a camminare da un giorno all’altro a sei mesi, senza passare attraverso l’imbarazzante apprendistato dei comuni mortali, e allo stesso tempo iniziò a parlare. A 2 anni recitava preghiere, a 4 anni cantava, e a 5 provava così  tanto fervore devozionale per il dio Kṛiṣhṇa che spesso era assorta e assente. Primi sospetti di disturbi psicologici da parte dei genitori che, ricordiamolo, trascuravano la bambina verso la quale provavano avversione. Nel frattempo, per fare spazio in casa, prepararono una piccola stanza contro il fienile dove vi sistemarono la bambina. Bella iniziativa per una bambina di 6 anni che non amavano, che si disconnette e che stanno già perdendo. La madre e il fratello maggiore le erano avversi a causa del suo comportamento eccentrico. Inoltre, all’età di 7 anni, notano che le sue assenze sono più frequenti e più intense. Un giorno, sua madre la vede ballare “in beatitudine” ma pensa che potrebbe trarre beneficio dalle lezioni di ballo. Aveva proprio capito tutto… Il biografo la fa nuotare nell’Oceano di Puro Amore e Beatitudine, tutto in maiuscolo. Tuttavia, questa non è l’opinione degli abitanti del villaggio che notavano che la bimba era costantemente in lacrime.

Suo padre, un implacabile inseminatore, continuava a mettere incinta la moglie quando questa era già in condizioni molto precarie. Infatti, quando dopo sei figli, non riusciva più ad occuparsi della casa, lui gliene inflisse altri sette. Tredici gravidanze in tutto, di cui cinque morti. Dopo Sudhamani, che era la terza tra i maggiori in vita, ebbe altre cinque gravidanze tutti sopravvissuti. È importante specificarlo per il contesto che seguirà. Pio e giusto fino in fondo, il nostro uomo. Di conseguenza, tutte le faccende domestiche spettarono a Sudhamani, presumibilmente considerata la serva di famiglia. Considerando il modo in cui è stata trattata, troverei più appropriato il termine “schiava”, sempre che i fatti relativi siano veri. La ragazza dovette interrompere gli studi a dieci anni, intorno alla quarta elementare, perché doveva lavorare dalle 3 del mattino alle 11 di sera. A quell’età, quattro ore di sonno, quando ci si è esauriti sul lavoro per le restanti venti ore, è criminalmente insufficiente: impossibile svilupparsi in modo sano, fisico, emotivo e psichico in queste condizioni, con o senza dio. Pur essendo invalida, sua madre aveva ancora abbastanza energia per maltrattarla ferocemente. La terrorizzava e la puniva per i più piccoli errori, la perseguitava e la torturava crudelmente (nel testo) – ricordiamocelo, anche lei, pia e giusta. Che sua figlia rubasse per sfamare gli indigenti la rendeva furiosa. Ma il peggio era quella carnagione scura: insormontabile e alla base della sua avversione. In seguito a tutto ciò un giorno, Sudhamani le disse: “Non sono tua figlia, devo essere tua nuora!”, a dieci anni… La bambina, infatti, iniziò a considerare l’oceano come la sua vera madre e si rifugiò nella follia, scusate…, nella devozione. Apprendiamo che la sua devozione “la elevò fino all’apice della divinità”. Personalmente non so cosa significhi, ma il biografo sembra conoscere bene questi stadi. Purtroppo, la fede, in linea di principio, non riconosce un limite oltre il quale iniziano l’improbabile e l’irragionevole, quindi per i fedeli convinti in anticipo, tutto è possibile.

Poi andò a lavorare con sua zia per diversi anni. Di conseguenza, la nostra grande torturatrice malata dovette badare a se stessa e, ovviamente, se la cavò. Ma questo non fa meravigliare il biografo. Quando la zia la picchia, Sudhamani non ne risente perché, non conoscendo altro, lo considera un comportamento normale. D’altra parte, la sua normale visione del mondo è particolarmente negativa: “il mondo è pieno di sofferenza e le relazioni si basano solo su bisogni egoistici”. Questo divenne il fondamento della filosofia del rifiuto del mondo che in seguito formulò. Nel frattempo, quando non canta, o non soffre l’agonia della separazione dal suo dio Kṛiṣhṇa, almeno due volte per pagina, piange, singhiozza, grida e chiama il suo Signore. Dopo 4 anni, quando ne ha 16, stanca di essere la serva maltrattata dalla zia, torna dalla madre per riconquistare il suo status di schiava perseguitata. E se ancora possibile, quest’ultima diventa in realtà ancora più rabbiosa e crudele. Esempio affascinante e casuale: la madre spia la ragazza mentre questa taglia l’erba e se la sorprende a chiacchierare con altre coetanee del villaggio, al suo ritorno la picchia col pestello del mortaio normalmente usato per pestare il riso (immaginate una mazza da baseball, più grande e più pesante) e a volte usa anche il macete (uh…, il macete?).  Quando non riesce a picchiarla la prende a calci, e se la ragazza riesce a schivarli ed ad afferrarle le mani, lei e la morde – comportamento che Sudhamani in seguito assumerà con Gail, la sua assistente personale. Tutto questo arricchito da insulti volgari e maledizioni di morte (nel testo) – dunque, sempre pia e giusta. Poco male, l’autore trova delle giustificazioni e spiega che il comportamento della madre è dovuto alla natura della sua devozione: ignorante e formale. Da parte sua, Sudhamani sostiene di considerare sua madre come il suo guru. Per qualcuno che non ha avuto nessun (altro) guru, ci si chiede seriamente: questa bambina perseguitata e torturata in modo spregevole e criminale, ha conosciuto solo come guru questa donna violenta, crudele, isterica e torturatrice, che nega e maledice la propria figlia per il colore della sua pelle. La stessa Sudhamani testimonia che sua madre le ha insegnato “cura, devozione e disciplina”.  Né lei né il suo biografo vedono l’incoerenza. Lei descrive come diligente, devota e disciplinata una madre che trascura, rifiuta e perseguita sua figlia per il colore della pelle, mentre il suo biografo descrive la sua devozione come ignorante e formale. In ogni caso, questo riconoscimento di Sudhamani per le qualità del suo unico “guru” non può essere di buon auspicio per il resto del suo ruolo di guru e per il destino dei suoi futuri discepoli. La bambina diceva [fingendo] “Non ho mai visto i miei veri genitori”. Nel villaggio, sempre per il suo colore, si scherzava sul fatto che doveva essere stata comprata in cambio di un po’ di crusca di riso (un modo per dire che era una persona inutile e per questo veniva trascurata e ignorata).

Anche il fratello maggiore, Subhagan, degno figlio di sua madre, la maltrattava e la picchiava frequentemente con futili pretesti. Quando la ragazza visitò le case dei vicini, si rese conto di quanto gli anziani fossero abbandonati e trascurati e si convinse della precarietà e dell’egoismo di base dei rapporti umani. Quando rubò un braccialetto d’oro per aiutare una famiglia sull’orlo della fame, suo padre la legò ad un albero e la picchiò a sangue. Insieme alla moglie e al figlio maggiore, anche lui poteva vantarsi di mantenere il disonore di questa famiglia inqualificabile. È facile capire perché il biografo scriva che la ragazza andava man mano sempre più perdendo il contatto con la realtà sconnettendosi sempre più sovente. Il solo pensiero di Rādhā (la compagna di Kṛiṣhṇa) la mandava in estasi. Da un lato ricordava i suoi dei preferiti, dall’altro si identificava con loro. Diventava sempre più difficile per lei occuparsi delle faccende di casa perché le sue labbra sussurravano costantemente i loro nomi sacri. I suoi genitori le proibivano di cantare e pregare la notte dopo il suo lavoro e la consideravano sempre più pazza. Non si confidò mai con un adulto. Non trovando alcuna conferma da parte loro, si rivolse agli animali e alla natura e iniziò a parlare con questi.

Dovette litigare con sua madre per ottenere il permesso di prendere lezioni di cucito presso la parrocchia locale e riuscì a seguirle per tre anni. Si recava nel cimitero adiacente per ricamare e godersi la compagnia dei defunti. Quando meditava in quel luogo, andava in estasi, così come quando ascoltava le storie di Kṛiṣhṇa. Non dormiva e trascorreva le notti piangendo e singhiozzando. I suoi genitori cercarono di farla sposare più volte, ma lei vi si oppose sempre energicamente, una volta promise addirittura che, qualora ci fossero riusciti, avrebbe ucciso il marito e sarebbe tornata a casa, il che le causò ancora più maltrattamenti. Non sopportando più questa situazione un giorno decise di suicidarsi gettandosi in mare. Erano convinti che avesse problemi psicologici. Le rare occasioni in cui riceveva un abito colorato o indossava una giacca di seta della sorella, veniva insultata e gli abiti venivano bruciati. Di conseguenza, si vestiva solo con vecchi vestiti logori e scartati da altri.

Se si vuole credere alla narrazione, è chiaro che, avendo continuamente sofferto fin dalla tenera età, senza amore, senza affetto, senza approvazione, essendo costantemente sfruttata, maltrattata, picchiata, terrorizzata, insultata, maledetta fin da giovanissima, dovette costruire il proprio mondo di riferimenti e approvazione, rifiutando totalmente quello degli adulti. Così si rivolse a Kṛiṣhṇa e la sua devozione prese il posto del sano e naturale amore umano. Ma non ne uscì illesa, come vedremo in seguito, il che non sorprende. Tali maltrattamenti sistematici e prolungati fin dalla tenera età non possono che cedere il passo a una o più forme di psicosi. Ma il biografo fa di tutto per rivelare questi squilibri e quelle profonde fratture psichiche come evoluzione spirituale, ascesa mistica e santa follia. Parla più volte di aberrazioni mentali. Si tratta probabilmente di una traduzione letterale dal malayalam perché questo concetto è sconosciuto. Scrive che era “una viaggiatrice solitaria nel suo mondo”. Riguardo alla follia o al misticismo, per onestà intellettuale, è difficile decidere. È dall’esame del suo comportamento nel tempo che capiremo se si tratterà di pura psicosi, di un vero sviluppo mistico o di un misto delle due cose. Il biografo la descrive, tra gli altri, come “stabilita nell’oceano dell’esistenza e della pura beatitudine”,  “avendo raggiunto un perfetto stato di pace mentale”, “riposa eternamente nel Supremo (l’Assoluto), “stabilita nello stato di puro Essere”. Quando mettiamo da parte per un momento lo schermo magico di questa litania di qualificazioni sacre che rende pepata la storia e osserviamo in modo più neutro il suo comportamento così come viene rappresentato, c’è motivo di meravigliarsi, anche di preoccuparsi per il suo equilibrio. Soprattutto perché il suo comportamento diventerà ancora più inquietante man mano che si disconnetterà con la realtà.

Quando va a raccogliere le foglie per gli animali, vede se stessa  e i bambini che l’accompagnano come protagonisti durante la vita di Kṛiṣhṇa. A volte vede Kṛiṣhṇa camminare accanto a lei, a volte si identifica con lui e vuole distruggere tutte le immagini sacre. Il biografo è implacabile e determinato a costruire la sua narrazione. Conclude che lei è stabilita in un oceano di pura coscienza e beatitudine.

Comincia a manifestare il bhāva di Kṛiṣhṇa ed è il periodo dei miracoli: deve trattenere il suo pubblico. Trasforma l’acqua in latte, il latte in dolci che da cento diventano mille. Mi ricorda qualcosa… Levita sdraiata su un ramoscello. Ingoia canfora infuocata. In breve, ce ne fu per tutti ed ebbe il suo effetto perché le persone iniziarono a credere nella divinità di Sudhamani, accanto alla divinità di Kṛiṣhṇa. Durante questo periodo, udì una voce, quella di Dio ovviamente, che le disse: “Tu sei Uno con me!”. Secondo il biografo, un astrologo le conferma di essere un Mahatma. I miracoli continuano: fa piovere ovunque tranne nel luogo in cui si radunano i fedeli, bacia con la lingua un cobra, balla sulla spiaggia per riempire le reti dei pescatori, beve latte avvelenato che su di lei non ha alcun effetto, usa le conchiglie come lampade e gli stoppini rimangono accesi durante la notte anche senza olio. Molti detrattori locali non hanno mai creduto a questi miracoli, ma non ha importanza, nel quadro generale, questo è insignificante. Durante il bhāva di  Kṛiṣhṇa annuncia a suo padre, tra le altre, la seguente profezia: “d’ora in poi la piccola sarà pura per sempre”[1]. Traduzione dell’espressione pudica: non avrà più il ciclo. Onestamente, che ci importa! Poi, considerando la giovinezza vissuta e ciò che ancora dovrà venire, non è sorprendente né magico che soffra di amenorrea. Ma qui è considerato un segno di santità, non di malattia. A parte questo, come abbiamo visto nel cap. III.4, potrebbe essere stata senza ciclo per un periodo, ma è innegabile che abbia riacquistato la salute, questo elemento è rimasto comunque uno dei fondamenti del mito.

[1] È strano che ne parli con suo padre, in una società dove l’argomento è riservato alle donne.

Sua madre la rispettava durante il Kṛiṣhṇa bhāva ma la perseguitava tra una sessione e l’altra. Anche suo padre, un devoto di Kṛiṣhṇa, apprezzava sempre queste sessioni, mentre suo fratello la definiva schizofrenica. Sua madre le proibiva di intrattenersi con i devoti dopo i bhāva sotto la minaccia di una severa punizione. Una sera  Sudhamani sentì un vicino ridere davanti a un amico e dire che i bhāva di questa ragazza rappresentavano semplicemente una forma di isterismo e che per calmarla sarebbe stato sufficiente farla sposare. Sentendo questo corse a rifugiarsi a casa sua ad implorare l’aiuto Kṛiṣhṇa. Questo incidente tende a invalidare le qualificazioni esaltanti dell’autore sul superlativo stato spirituale dell’adolescente. Ma le incongruenze non hanno attinenza con la credenza.

Ce ne rendiamo conto tre pagine dopo: Sudhamani, ormai saldamente radicata nella coscienza di Kṛiṣhṇa, e fermamente identificata con lui, la pratica devozionale dell’evoluzione verso il suo dio era diventata impossibile. Ad una visione di luce in cui le apparve la dea, l’adolescente gridò: “Kiha, la Madre è venuta! Portami da lei! Voglio abbracciarla! “Sentì che Kṛiṣhṇa la stava elevando ad un altro mondo, ma la Madre rimase introvabile. Così colei che, ricordiamolo, era “stabilita nell’oceano della beatitudine”, “avendo raggiunto un perfetto stato di pace della mente”, “riposando eternamente nell’Assoluto” e “stabilita nello stato di puro Essere” sentì l’intenso bisogno di adorare la Madre Divina e di dedicarsi alla pratica spirituale che portava a fondersi con Lei (secondo il testo), per realizzare il divino nella forma della Madre dell’universo. Quindi è ripartita per un giro. Solo le menti che credono oltre ogni ragione e profondamente imbevute di devozione non vedranno l’assurdità di questa storia. Infatti, se uno ha realizzato e integrato l’Assoluto, la quintessenza del dio “x”, non c’è altra via da percorrere, e nessuno vuole passare attraverso nulla, essendo l’ego immerso nell’Essere Supremo. Il fatto che voglia ricominciare la sua agonia di separazione dal dio “y”, altra rappresentazione dell’Uno, mostra che non è arrivata a destinazione alla base come vorrebbe far credere la biografia.  Inoltre, questa svolta degli eventi suggerisce che l’agonia, lo strazio, la separazione, il sentimento di abbandono, la supplica, la valle di lacrime è piuttosto ciò con cui l’adolescente si identifica. In effetti, quello che viene descritto come il suo nuovo ascetismo si rivelerà ancora più devastante del precedente. Tornò al suo passatempo preferito: piangere, singhiozzare e gridare per implorare. Vedeva la Madre in ogni cosa e allo stesso tempo la cercava costantemente dappertutto. Emotivamente e psicologicamente affamata dal comportamento indicibile della sua madre biologica, regredì immaginando di essere una bambina che striscia a quattro zampe e piange alla ricerca della sua Madre Divina in Madre Natura (vi sono un sacco di madri). Immaginandosi di avere due anni, si recò dalla vicina che stava dando il seno al suo bambino per succhiare quel latte lei stessa, vi andò così tante volte che la donna quando doveva allattare era costretta a ritirarsi. Non dormiva più e trascorreva le notti a supplicare la Madre dell’Universo in modo ossessivo. Come lei stessa dice: “Non ho mai avuto un guru e non sono stata iniziata da nessuno; il mio unico mantra era ‘Mamma! Mamma!” (Amma, nel testo). Sbalorditivo. Insieme alla sua visione del guru, lascia senza parole.

Il comportamento psicotico che aveva mostrato nel suo “ascetismo” di Kṛiṣhṇa è qui accresciuto di dieci volte. La vediamo cadere negli escrementi umani della laguna, mordere la dea e strapparle i capelli, afferrare il pestello per picchiare la dea, senza rendersi conto che era a se stessa che stava infliggendo questo trattamento. Qui possiamo vedere chiaramente che, accanto alla regressione infantile, riproduce l’unico comportamento che conosce nelle relazioni, nella sua forma autopunitiva e autoaggressiva, quello della madre biologica nei suoi confronti, isterica e violenta. Il biografo continua a farci credere alla sua storia poco plausibile e testimonia che si tratti di una forma di devozione altamente evoluta al di là della comprensione dei comuni mortali. La famiglia è convinta che sia schizofrenica e continua ad abusare di lei. Incapace di sopportare più a lungo tale situazione, decide per la seconda volta di suicidarsi nell’oceano, ma cade in trance quando raggiunge la riva. Gli abitanti del villaggio, che hanno riconosciuto il suo “splendore spirituale e il suo amore universale” (il biografo non perde occasione per portare a casa il punto), hanno pietà di colei che ha lavorato così tanto e così a lungo per la sua famiglia e dalla quale è stata completamente abbandonata. Il suo “ascetismo” è così intenso che il suo corpo è estremamente caldo e deve rinfrescarsi nella laguna salmastra. Imprevedibilmente, o si rotola sul pavimento in una risata, o scoppia in lacrime e urla. Quando canta e chiama,  perde il controllo, urla e si rotola per terra, si strappa i vestiti, poi si alza ridendo e si mette a correre in tutte le direzioni. A volte gli abitanti del villaggio la trovano nel fango e la prendono in braccio, la lavano e la vestono. Si può sinceramente dubitare che si tratti di qualsiasi tipo di ascesi, ma non disturbiamo la narrazione.

Poi ci viene servito il capitolo francescano dedicato agli animali, alla loro capacità di parlare, di capirla meglio degli uomini: c’è la mucca che aspetta che esca dalla sua meditazione per porgerle la mammella dalla quale berrà direttamente; c’è poi l’altra mucca che percorre sei chilometri per raggiungerla e farla bere. Infatti, quando gli umani le danno del latte caldo, lei lo vomita, e questo, a quanto pare, le mucche lo sanno. I pappagalli simpatizzano e piangono quando lei piange,  le poiane sanno che ha bisogno di mangiare e le lasciano cadere accanto del pesce che lei divora crudo, il gatto locale le gira intorno, il cane le lecca il viso per toglierla dal suo disagio e piange con lei,  la capra le muore in grembo ecc. Notiamo per inciso che ciò che il narratore vuole farci spacciare per magico corrisponde in parte al comportamento normale degli animali: i gatti che ci amano ci girano intorno, i cani ci svegliano, entrano in empatia con noi e ci imitano ecc. Ma Sudhamani va ancora meglio: “quando raggiungiamo l’equanimità, anche gli animali ostili adottano un comportamento amichevole in nostra presenza”. In questo caso, non si trattava qui di una bambina abbandonata nella giungla, ma di una ragazzina circondata da cani, gatti e capre nell’aia della sua casa natale sotto il palmeto.

Il narratore trova un’altra occasione per cercare di convincerci dello “stato di realizzazione di colei che nuota nell’oceano dell’amore immortale”. Eppure allo stesso tempo, descrive di nuovo i suoi attacchi incontrollabili di singhiozzi e risate che si dissipano solo quando sviene. Non dorme e non si alimenta in modo normale, a volte ingoia il vetro e persino i suoi stessi escrementi. In questo stato, di agonia, strazio, supplica, incessante scorrere di lacrime, soffocamento, desiderio di suicidio, sperimenta finalmente l’apparizione della dea. In un canto, che racconta l’esperienza, dice che la luce divina della Madre si è immersa in lei e poi proclama la verità suprema (ma piuttosto mondana) che ottiene direttamente dalle sue labbra: ”Oh uomo, fonditi nel tuo Sé!”. Si può essere più banali? Il suo canto si conclude con il caro ricordo delle parole della Madre: “Mia cara, abbandona tutti i tuoi compiti e vieni da me. Sarai mia per sempre”. A seguito di questa meravigliosa esperienza che avrebbe dovuto appagarla, il narratore racconta che sviluppò un’intensa avversione per il mondo visibile e iniziò a scavare buche nella terra per nascondervisi. Come dice lui stesso, quelli che già pensavano che fosse pazza, ora ne erano totalmente convinti. La narrazione tenta di far credere agli adoratori che qualcuno che ha realizzato la coscienza di Dio (in Kṛiṣhṇa), che si è fuso nell’Assoluto, che ha raggiunto lo stato di pace eterna della sua vita, possa nuovamente sviluppare il desiderio di fondersi con la coscienza di Dio (come Devi), impegnandosi in un desiderio profondamente psicotico, la luce della dea che finalmente si immerge in lei e fa il bagno nella beatitudine della realizzazione di Dio, continua a comportarsi in modo psicotico cercando di nascondersi sottoterra. In realtà ci vuole molta fede (cieca) e devozione (senza discernimento) per aderire a questo racconto magico e incoerente quando il buon senso mostra chiaramente una realtà completamente diversa. Nonostante la sua presunta realizzazione dell’Uno in tutte le cose, trova ancora la dualità insopportabile. Infine, ha questa chiamata interiore a servire l’essere umano, salvandolo dall’orribile esistenza terrena – sapendo che anche se ha sofferto atrocemente, non deve essere necessariamente l’esperienza di tutti. Quindi rifiutare il mondo in blocco e considerare che l’unica via sia rivolgersi a Dio fuori del mondo è semplicemente il suo modo di vedere le cose. 

Alla fine del 1975 manifestò il suo primo Devi bhāva, sei mesi dopo quello di Krishna. Il narratore descrive il bhāva come “stato d’animo”, ma anche come una manifestazione della propria identificazione intima con Krishna o con la Devi mentre per gli abitanti del villaggio sarà né più né meno che una possessione momentanea. Il modo in cui avviene questo passaggio è particolare. Mentre i devoti venivano molestati dagli abitanti del villaggio durante il bhāva di Kṛiṣhṇa, lei si alzò scoppiando in una sonora risata e, uscendo dal tempio, si trasformò in una Devi, secondo le sue stesse parole, con la bramosia “di distruggere le persone ingiuste”. Questo è ciò che il narratore chiama (sulla scia di questa affermazione) l’incarnazione dell’amore universale: “D’ora in poi la chiameremo la Santa Madre”. Anche in questo caso, ovviamente, né lui (e né lei) vedono questo tipo di incoerenza: distruggere, amare… Ma è il solo modo che lei conosce. Anche il suo “ordine di missione dall’alto” non regge: sente una voce dall’interno che le dice tra l’altro: “Adorami nel cuore di tutti gli esseri e liberali dalle sofferenze dell’esistenza terrena!” Ma chiunque abbia letto qualche pagina di filosofia o di spiritualità ha già sentito dire che 1) l’esistenza terrena sarà sempre fonte di tribolazione e 2) non è l’esistenza terrena la fonte della sofferenza ma l’attaccamento, l’identificazione. Ma questi principi di base non sembrano né chiari a Sudhamani né al suo biografo, sebbene formatosi in filosofia. (…) In precedenza, inoltre, a pagina 81, nel capitolo “Il vero flauto”, il nostro post-laurea in filosofia scrisse: “Così Sudhamani si stabilirà nell’oceano della pura esistenza e della beatitudine e raggiungerà la perfetta pace della mente”. Cos’è la pura esistenza? L’etimologia della parola esistenza lo rende l’opposto di Essere. Infatti, da un lato, exsistere significa ciò che emerge, ciò che appare, ciò che è visibile nella luce, ciò che sorge o ciò che si produce. Dall’altro exstare, significa ciò che sta al di fuori o al di fuori di qualcosa. In entrambi i casi, l’esistenza rappresenta ciò che è oggettivato dalla coscienza, mentre il secondo indica un’uscita dall’Essere. Esistenza quindi non è l’Essere e non certo sinonimo di essere. Quindi, quando si parla di “sat-chit-ānanda“, tradotto imperfettamente come “esistenza-coscienza-beatitudine”, dobbiamo piuttosto poter parlare dell’ Essere e della Coscienza come due facce della stessa medaglia: “Io sono, e per questo infatti, sono cosciente di essere. L’Io non ha bisogno di nient’altro che lui stesso per essere cosciente che lui è”. L’esistenza non ha nulla a che vedere con questo concetto fondamentale. Inoltre, il termine esistenza è usato anche in opposizione alla vita. È associato al peso dell’esistenza, ad esempio in opposizione alla bellezza o all’apprendimento della vita. Comunque si guardi questo termine, esso resta legato al mondo e non all’Essere. Questa non è l’unica incoerenza di questo tipo, ma l’unica che sottolineerò. (…)

 Arriviamo finalmente all’inizio della sua missione spirituale nel mondo quando dice che dal momento in cui ebbe la sua esperienza della Madre Divina, non poté “vedere nient’altro come diverso dal mio stesso Sé, all’interno del quale l’intero universo esiste come una minuscola bolla.” Stranamente, anche stabilita nella realizzazione di Dio, nell’Assoluto, in qualunque cosa si voglia, continua a praticare l’ascesi spirituale — viene da chiedersi “chi” pratica, per “cosa”, chi è rimasto come ego, come individuo, per esprimere questo bisogno? — per dimostrare che tutte le forme di Dio e delle Dee sono tante sfaccettature della stessa realtà non duale. Si supponeva che avesse già realizzato l’Assoluto in Kṛiṣhṇa. Quando si raggiunge quello stato, non ci sono altri posti dove andare e più nessuno per andare da nessuna parte. Ma lei aveva il desiderio di realizzare la Devi, e ora di realizzare tutto il resto. Immaginate qualcuno che si trova a Milano e che ha bisogno di andare a Roma per una procedura amministrativa. Arrivato a Roma si dice “Ecco, vado a Roma  da Firenze!” Va a Firenze e da lì prende il treno per Roma. Arrivato a Roma, si dice: “Ehi, vado a Roma da Torino!” Lascia Roma va a Torino  e torna a Roma. E così via tutte le volte che si vuole. Se esplica tutta la procedura amministrativa alla prima volta e ottiene i suoi documenti che altro dovrebbe fare? Ovviamente torna a casa. Secondo me, nel nostro caso specifico, avendo perso i suoi documenti per strada e dimenticato le sue formalità, passa il suo tempo a verificare se possiamo raggiungere Roma da città diverse da Milano. Sarebbe per dimostrare che tutte le strade portano a Roma?

Sudhamani e il suo biografo,  nonostante il caos e l’incoerenza delle sue esperienze, cercano con tutti i mezzi di elaborare un risultato supremo che ovviamente non corrisponde alla realtà. È innegabile che Sudhamani abbia avuto “esperienze” spirituali, ma con tutta modestia, qualunque cosa dica e qualunque cosa affermi il suo biografo, sembra non essere mai arrivata alla fine del suo viaggio. Lo capiremo anche seguendo la sua storia. Mentre l’India è una culla di filosofie pratiche di ineguagliabile ricchezza che ci permettono con precisione di determinare a quale stadio dell’evoluzione spirituale ci troviamo e in quale stadio si trova colui che vorremmo seguire come maestro,  non si può affermare qualsiasi  cosa in quel modo. Onestamente si ha l’impressione che si tratti di una narrazione costruita. Sfortunatamente, questo è il caso della maggior parte dei guru indiani o indianizzanti: una o poche esperienze significative di un aspirante senza dubbio sincero e intensamente devoto alla sua pratica, poi una narrazione costruita attorno ad essa. Ma andiamo avanti: leggiamo che suo fratello, stufo delle sue scappatelle mistico-deliranti, un giorno la attira nella casa di un vicino dove si ritrova circondata da ragazzi che la minacciano con un coltello e vogliono ucciderla. Nel più puro stile teatrale popolare, colui che brandisce il coltello, quando prova a colpirla al petto crolla per il dolore ancor prima di averla toccata. Sua madre viene a prenderla e sulla via del ritorno, per la terza volta, Sudhamani, la nostra Anima Realizzata in cui l’ego non è più nemmeno un ricordo, vuole suicidarsi in mare.  Capisca chi può. Sua madre con fare isterico riesce a dissuaderla. Nel frattempo il cugino che l’aveva minacciata si ritrova in ospedale e Sudhamani si reca a fargli  visita. Gli spiega di non avere sentimenti di vendetta ma che gli esseri sottili intorno a lei sono arrabbiati e si vendicheranno per lei. Muore misteriosamente vomitando sangue. Vedremo nella sua storia che questo tipo di fenomeno viene riportato più e più volte – quale modo migliore per instillare paura e sottomissione nei suoi seguaci! Non è mai lei a vendicarsi e a punire. Lei rimane bianca come la neve: sono sempre i terzi a fare il lavoro sporco per questo. A differenza degli esseri sottili della biografia, oggigiorno sono gli esseri umani che se ne occupano.

Profondamente turbato dal fenomeno dei bhāva e dalla folla di devoti che si reca nel cortile della sua casa tre volte alla settimana, suo padre si reca da lei durante il bhāva della Devi e chiede alla Dea di restituirgli sua figlia. In risposta, lei crolla davanti a lui senza vita. In pratica è morta e il narratore dice che il suo corpo si irrigidì in pochi istanti. Un’altra opportunità per un po’ di discorso magico perché nel mondo reale, noioso, il rigor mortis inizia a manifestarsi solo tre ore dopo la morte e raggiunge il picco circa nove ore dopo, ma poiché si tratta probabilmente di racconti e leggende, la realtà non ha importanza. Il pater familias si scusa, piange, prega, sviene per l’angoscia e sua figlia torna in vita… in Krishna:senza Shakti non si può avere Krishna!”, lei dice. Sinceramente non capisco l’interesse o il significato particolare di questa frase di pseudo saggezza, ma poco importa.

Nel capitolo 9 apprendiamo che “l’arma più grande dell’aspirante spirituale è la spada della verità”. Ne prendiamo nota qui perché ne avremo bisogno per dopo. Il narratore continua nella sua logica e associa Sudhamani a Kṛiṣhṇa, Rāma, Gesù e Buddha. Perché no? Provare non costa nulla. Siamo nel 1978. Il suo feroce fratello avversario è sempre più depresso e con tendenze suicide: ha la gotta. Nella narrazione lei dice a sua madre che suo fratello non ha più molto tempo per vivere. Un giorno, il fratello molesta e insulta violentemente una devota musulmana venuta per il darshan, che, profondamente scioccata, si presenta piangente di fronte alla Devi durante il darshan. Il sangue di Sudhamani ribolle, la Devi si alza dal suo trono e maledice: “Colui che ti ha causato questa sofferenza morirà entro sette giorni!” Di fatto, sarà difficile trovare dei Mahatma in India che maledicano e uccidano con il loro potere – e, direttamente o indirettamente, tali sfortunati eventi si ripetono. Ma come dirà più avanti il ​​biografo: “nella storia spirituale dell’India, lei non ha eguali”. La nostra Madre di infinita compassione e di amore incarnato, precisa che non punisce nessuno, ma che quando i suoi fedeli soffrono, nemmeno Dio perdona i loro aggressori, tutti devono avvalersi del frutto delle loro azioni. Qualunque cosa lei ne avesse detto, in realtà era stata proprio lei ad averlo maledetto. Il fratello fu avvertito della predizione (il narratore avrebbe dovuto dire, della maledizione) e finisce per suicidarsi impiccandosi. Un’altra teoria, ufficiosa, circola sulla morte del fratello, che affronterò alla fine del capitolo. Prevede in modo non verificabile che dopo qualche anno si sarebbe reincarnato in un ragazzo del quartiere, il che rassicurerà i suoi genitori. Poi ovviamente vi si aggiunge il racconto magico in cui, fin dalla nascita, il bambino avrebbe ripetuto la sacra sillaba OM e praticato la meditazione

Nel corso della sua storia pubblica, Sudhamani fu costantemente molestata dai vicini, cosiddetti razionalisti e miscredenti, che cercavano costantemente di rivelare quello che consideravano un inganno. Apprendiamo che danzò su delle spine e sui vetri rotti sparsi da queste persone, senza subire conseguenze. Ovviamente, non avevamo ancora finito con i miracoli. È anche interessante notare che i razionalisti sono descritti come ignoranti, scortesi, ingiusti, miscredenti e cattivi. Degna di nota è anche la dura discriminazione contro i non credenti. Come se fosse criminale o malvagio non credere in lei. Alla fine il narratore nota che i razionalisti stanno tentando di  intralciarla cercando di influenzare la polizia e i politici. Si noterà che Sudhamani e l’organizzazione sono stati in grado di trarre ispirazione in seguito a loro vantaggio da questo esempio molto istruttivo e utile ingrandendolo a proporzioni senza precedenti.

La narrazione la pone in uno stato di perfetta equanimità. La sua vita dimostrerebbe che la realizzazione di Dio può aver luogo anche nelle circostanze più difficili. In una di queste citazioni dice di se stessa “Sappiate che la Madre è Onnipresente, Una con tutti, più vicina a voi della vostre stesse madri biologiche desiderosa di accompagnarvi affinché possiate godere della beatitudine in tutte le vostre vite future”. Il problema con il delirio di onnipotenza non è solo far credere alle persone che uno è qualcosa o qualcuno che non è, e di rischiare che costoro sprechino tra le altre cose, la loro vita, le loro energie, i loro soldi, la loro famiglia, la loro carriera, ma anche il fatto che si basa sull’ignoranza. In effetti, l’anima che avrebbe raggiunto la beatitudine è un’anima liberata la cui identificazione con l’ego è interrotta per sempre, e che quindi non si reincarnerà, perché non ci sarà più alcun karma da compiere poiché non c’è più nessuno che si identifichi con esso. Quindi, necessariamente, la beatitudine sarà sperimentata solo una volta, nella vita in cui è stata raggiunta. A parte questo, non so se le madri apprezzeranno il drastico giudizio negativo.

Nel capitolo 10, intitolato “La madre della beatitudine immortale”, pagina 177, fa apparire uno dei suoi primi discepoli, Chandru, di cui nasconde il nome, come uno “studente universitario”. Peccato perché questo personaggio era importante: fu lui che, venendo a Tiruvannamalai, scoprì i suoi primi discepoli occidentali, l’americano Nealu, l’australiana Gayatri e i francesi Madhu e Ganga. Chandru non è solo colui che è venuto a prenderci, ma anche colui che ci ha insegnato la recitazione e l’interpretazione dei testi sacri. Inoltre fu lui a trasmettermi l’iniziazione al brahmacharyam (sorta di noviziato sacerdotale) in nome di A.. Ha giocato un ruolo importante e cruciale nelle origini dell’organizzazione fino a ritrovarsi finalmente quasi staccato dalla biografia. Così funziona questa istituzione.

 Il biografo afferma che noi quattro le avevamo offerto la nostra fortuna, e precisa: “in tutta devozione”, ma che lei l’avrebbe rifiutata considerando che la nostra evoluzione spirituale era la sua unica ricchezza. Infatti quello che non specifica è che dei quattro, tre erano senza un soldo e vivevano quasi di elemosina. Ma si sa, visto dal palmeto di cocco,  probabilmente ha a che fare con il mito della pelle bianca e della relativa ricchezza.

Mi ritrovo menzionato in questa biografia solo una volta, a parte la prima volta in cui Chandru ci ha incontrato, secondo un aneddoto poco lusinghiero, sempre nel capitolo 10, pagina 183. La storia, inoltre, non è riportata con precisione. Per quanto riguarda la via della devozione, non ero arrivato vergine. Avevo già avuto le mie prime esperienze da alcuni anni a Tiruvannamalai dove mi ispiravo alla devozione del saggio Ramana Maharshi. Avevo tradotto la ghirlanda nuziale di lettere in inglese, dall’originale in tamil, con lo stesso piede metrico, in modo che potesse essere cantata indifferentemente in tamil e in inglese, cosa che facevo regolarmente quando giravo a piedi nudi intorno alla montagna per quattordici km, circondato da altri bhakta. Stavo studiando la vita di mistici come Paramahamsa Rāmakṛiṣhṇa, il santo del Bengala e, tra gli altri, i santi bhakta del Tamilnadu. Ricordo di aver accompagnato adoratori bhakta ispirati e ispiranti devoti di Muruga, proprio insieme a Madhu, che si erano fermati per alcuni giorni durante il loro pellegrinaggio, il loro esempio ci commosse profondamente. Detto questo, nell’ambito di questa biografia, più volte rielaborata secondo esigenze politiche, essendo comunque una costruzione artificiale e una narrazione piena di imprecisioni e di insopportabile bigottismo, il fatto che io non sia rappresentato correttamente non ha importanza. Diciamo che questo mi assolve da ogni compiacimento e clemenza nella mia attuale valutazione critica.

Né Gayatri né io troviamo favore in questa biografia, è davvero il colmo! E francamente del tutto ridicolo. Gayatri si è occupata di ristabilire la sua versione della storia e, da parte mia, è quello che faccio in parte in questo libro. Quando riscriviamo la storia, la eviriamo dalle sue virtù educative e la trasformiamo in uno strumento di propaganda. In effetti, insomma, se sono quasi scomparso dal panorama storico, è perché ho deciso di non diventare una bugia clericale, come sono diventati la maggior parte degli anziani che ho lasciato. È perché ho deciso di vivere in modo umile, giusto e onesto, in relazione a chi ero, senza compiacimenti, senza raccontarmi storie e senza raccontare storie agli altri. E cosa ho fatto che dispiacesse all’organizzazione? Nient’altro che essere stato onesto ed essermene andato. Ma questo, per loro, è un’offesa sufficiente. Fui quindi accusato con falsi pretesti per farmi tacere in anticipo.  (…)

Anche nel capitolo 10, pagina 188, A. consiglia ai suoi aspiranti di non partecipare a cerimonie nuziali o funerarie. Perché, dice, “le vibrazioni delle preoccupazioni mondane penetreranno nella mente dell’aspirante suo malgrado, egli sarà irrequieto e desidererà cose irreali (effimere, futili). Non ha tutti i torti. Allo stesso tempo, sarebbe troppo lungo entrare nel dettaglio di questo deplorevole malinteso, perché la sua filosofia di vita si basa sul rifiuto del mondo, sul rifiuto delle esperienze terrene, sull’inconcepibilità del bello e del sacro nella vita terrena, sull’inimmaginabile della vita terrena come altro modo efficace di evolvere spiritualmente, a contrario della rinuncia. Date le sue esperienze disastrose nella sua giovinezza, pensa che il mondo sia come l’ha vissuto lei.

Sempre nel capitolo 10, pagina 192, si parla di una scuola di Vedanta (Vedanta Vidyalaya) che sarebbe stata fondata nel 1982 per trasmettere la conoscenza della filosofia e del sanscrito. Onestamente, nel 1982 ero lì permanentemente, eravamo tra noi in un comitato relativamente piccolo e non ho mai sentito parlare di una scuola del genere. Erano venuti due insegnanti, uno di filosofia e l’altro di sanscrito, quest’ultimo era stato anche l’insegnante privato di yoga di uno di noi. Ma erano piuttosto noiosi e in seguito furono brillantemente sostituiti, con nostro grande piacere, da nostro fratello Chandru tornato dalla Missione di Chinmaya. Per le sue lezioni, inizialmente ci sedevamo sulla veranda del mini tempio originale, in seguito ci spostammo in una nuova sala che veniva utilizzata anche per molte altre cose. Dopo le lezioni tornavamo ad occuparci dei nostri impegni. Non ho mai visto nessun “Vedanta Vidyalaya”, ma forse questo è lo stile del narratore, gonfiare i dettagli più fini per produrre una storia gloriosa e più potente.

Il narratore parla del cambiamento nell’ashram e del numero sempre crescente di visitatori. Cita i genitori di A. e osa sostenere in modo abbastanza ripugnante che la famiglia sia ora diventata meritevole ed esemplare, che i genitori svolgono il ruolo di padre e madre per tutti gli aspiranti residenti nell’ashram come fossero i loro figli. Dico rivoltante perché li assolve un po’ troppo facilmente dal comportamento criminale che hanno avuto nel tempo con la figlia, che l’ha resa ciò che è e che qui stiamo cercando di decifrare. Rivoltante anche perché è uno degli ultimi elementi di questa narrativa costruita in cui si sforza inesorabilmente di far apparire le persone agli occhi del mondo per ciò che non sono.

Un’altra pia bugia riguarda le prime visite in Occidente. Scrive che in risposta alle ripetute richieste dei suoi figli all’estero, la Santa Madre fece il suo primo tour mondiale nel 1987. L’impatto fu meraviglioso, dice, e su larga scala. Siamo spiacenti, ma la realtà è che non c’erano “bambini” all’estero. È stata lei a incoraggiarci ad andare in esilio – nel mio caso, già nel 1984 – e tornare nei nostri paesi d’origine per farla conoscere al fine di trovare e trattenere futuri fedeli e incoraggiarli a pagare il suo viaggio, il suo soggiorno e per coprire le spese del suo gruppo. Per lanciare il suo primo tour mondiale, il suo approccio fu così proselitistico che mi mise a disagio. Preferii adottare un profilo basso e lasciare che si entusiasmassero tra di loro con questo progetto. Proprio Chandru, il grande assente dalla biografia (sebbene citato 44 volte nel libro di Gail), partì con Nealu e una devota americana, Kusuma, per andare a pesca di devoti. Per quanto riguarda l’impatto su larga scala, ai suoi programmi per la maggior parte vi partecipavano circa quaranta persone, pertanto, le sale da pranzo degli appartamenti in cui eravamo alloggiati erano adeguate per i programmi. Era sufficiente spostare i mobili all’interno. Già, era proprio così, i programmi erano forse molto meno affascinanti ma con il pregio di essere veri.

Poco dopo nel racconto, A. spiega come un essere realizzato (si include nel racconto) vede il mondo e gli esseri che lo circondano e conclude così: “Allo stesso modo, figli miei, solo quando voi stessi sarete diventati moralmente e spiritualmente perfetti e vedrete il divino in ogni cosa, potrete insegnare agli altri a diventarlo.” Notiamo ancora questa citazione particolarmente rilevante nel contesto di questa testimonianza. (…)

Nel capitolo 11 sul significato dei bhāva divini, il narratore, diciamolo apertamente, cerca di farci accettare il fatto che Sudhamani sia un avatar. Descrive tre categorie di avatar, pūra, amsa e āveśha, cioè completo, parziale e circostanziato, fornisce esempi dalla mitologia indù. Sentiamo parlare, tra gli altri, di Viṣhṇu, Narasimha, Rāma, Parasurāma, Kṛiṣhṇa, Hanumān. Tradizionalmente, gli avatar sono degli dei sotto altre forme, come Kṛiṣhṇa o Rāma degli avatar di Viṣhṇu. La corsa dei guru contemporanei all’ “avatarismo” è ridicola. In ultima analisi, come diceva Ramaṇa Maharshi, da un lato saremmo tutti avatar e dall’altro, nel percorso della conoscenza, non c’è avatar ma solo Il Reale. Il concetto di avatar è puranico, non vedico. Ora, nei Purāṇas, tutto è possibile. Ma andiamo avanti; nella narrazione, ovviamente, egli associa sottilmente questo concetto a Sudhamani. La sua perorazione di cinque pagine non trova conclusione, non sapremo in quale categoria classifichi la sua divina madre. Ma ciò che rimarrà come impressione è che lei sia un avatar di dio. Questo è probabilmente l’effetto desiderato. Inoltre, il suo avatar, nello spiegare i bhāva si esprime così: “La madre manifesta solo una parte infinitesimale del suo potere spirituale durante i bhāva. Se lo manifestasse così com’è, nessuno potrebbe avvicinarsi a lei.” Suo figlio, il narratore, aggiunge dicendo che i bhāva sono fuori dalla portata dell’intelligenza umana ed esprimono l’infinito potere spirituale della Madre. Spiega che questo è il modo della Beata Madre di servire “l’umanità immersa nel pantano della terra”. Il pantano terreno… Spero che apprezziate la filosofia profondamente giudicante – per non dire ipocrita, quando fare sesso in segreto fa parte dell’agenda. Alla fine, la cosa principale è chi noi siamo, i ricercatori, non il numero di medaglie e strisce appuntate sulle spalle del guru.

Sempre nella spiegazione del significato dei bhāva leggiamo che sono l’espressione della sua ininterrotta unione con il Supremo e che questa grande anima possiede un potere spirituale inspiegabile. Lei è tutto ciò che le persone possono immaginare. Il biografo promuove la gloria della sua santa Madre e dei suoi poteri psichici. Mettendosi nei panni di un fedele credente, enumera le sue gloriose qualità e benedizioni in più di venti modi (…)

Riprende la narrazione e dice che un satguru (maestro perfetto) “ama semplicemente il suo discepolo e lo legherà con il suo amore incondizionato (…). La Madre non si aspetta altro che il tuo progresso spirituale”. Si noti l’associazione: Madre (Amma) / Satguru. Il biografo specifica anche che istruisce dando l’esempio tramite le sue azioni. Un’altra frase molto importante nel contesto di questa testimonianza.

Durante un dialogo parla di worldly persons, espressione intraducibile di persone che vivono nel mondo, che hanno una famiglia, che devono lavorare, in altre parole, tutto tranne i monaci rinunciatari. Quello che dice è discriminatorio e condiscendente, ma lo dice con convinzione e amore, probabilmente anche: “Figli miei, per quanto riguarda le persone del mondo, è sufficiente che si occupino dei loro coniugi e dei loro figli. Un vero monaco, invece, deve portare il mondo intero sulle sue spalle”.

Il biografo conclude la sua narrazione dicendo che: “Nella storia spirituale dell’India, lei è impareggiabile e senza precedenti nella manifestazione illimitata di grazia e compassione per l’umanità errante. Possa la sua vita divina guidare coloro che aspirano a realizzare la pace e la beatitudine suprema della realizzazione del Sé”.

Ciò che inquieta in questa biografia è l’interesse e il bisogno imperioso che l’autore sembra esprimere per porre il suo maestro, sua madre, contro ogni previsione, a volte contro ogni logica, sul suo piedistallo celebrativo. Ossessionato dal martellamento del suo così detto status, i problemi di coerenza nella logica del suo approccio sembrano sfuggirgli. Quale potrebbe essere il suo interesse? La codipendenza che emerge da questa interazione è interessante. Perché il biografo è anche colui che scrive i suoi cosiddetti “insegnamenti”. Sebbene il lavoro di A. sia innegabile, il ruolo del suo secondo nell’organizzazione resta notevole: per dirla semplicemente, si ha l’impressione che sia stato Balu a contribuire a rendere sua Madre ciò che è. E infatti, lei lo ricompensa. Nella sezione “Esperienze degli aspiranti spirituali”, nel capitolo 12, pagina 209 della biografia — una sezione che sembra essere stata rimossa dalle versioni successive — il biografo sfrutta la narrazione per trovare un piccolo spazio al sole, a tutti gli effetti, raccontando un aneddoto di cui ve ne cito qui un estratto: “Dopo aver cantato, sono entrato nel santuario con questa risoluzione: Madre, se sono tuo figlio, ti prego, accettami! Appoggiando il capo sulla sua spalla, la Madre rispose affettuosamente: “Figlio, quando la madre ti ha sentito cantare, ha capito che quella voce è destinata a fondersi in Dio. In quel momento, la Madre è venuta da te e ti ha fatto Uno con Lei. Tu sei veramente mio!” Questi servizi reciproci resi, questa codipendenza, ovviamente relativizzano la portata del messaggio nel suo insieme.

Nella seconda parte di questa recensione, includerò alcune appendici biografiche, estratte dallo studio clinico dello psichiatra e monaco sannyāsin, il Dr. Jacques Vigne, alcune osservazioni sulla bhakti e le mie conclusioni e riflessioni generali. (Da leggere nel libro).

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